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venerdì 30 aprile 2010

HE SAID JUMP

Come sempre è un piacere vedere Ilabaca saltare. Video molto carino. E tanta invidia per la struttura.

giovedì 29 aprile 2010

Imparare dagli animali

Tempo fa sul forum di PKgenerations avevo letto un topic in cui si mostrava a rallentatore lo stacco di un uccello che si alza in volo dopo una breve rincorsa; era curioso notare, come sottolineava l’autore del post, che non saltava a zampe unite, ma con il doppio passo. Non riesco a ritrovare quel video, però posto quest’altro in cui si può osservare il movimento di addominali (si chiamano così anche per gli animali?) del gatto. Arrivano prima i piedi, poi c’è lo scatto per allungare le zampe anteriori.

mercoledì 28 aprile 2010

domenica 25 aprile 2010

Hic et Nunc

Ricercando un’eventuale traduzione del libro di Timothy Gallwey citato nell’articolo di Thomas (post precedente), mi sono imbattuto in questo sito in cui si parla dell’interessante concetto di stato di flusso, che personalmente provo principalmente durante le partite a calcetto e che più che altro è presente nelle attività agonistiche. Nel Parkour credo che la concentrazione porti ad uno stato simile ma non uguale. O forse è solo che da (impaurito) principiante non riesco a raggiungere una tale condizione. Devo rifletterci. Ad ogni modo mi piace la frase che ho trovato in quella pagina:

Ecco: il qui e ora.
Comincia a pensarci
e lo perdi

Huang Po

Imparare ad imparare

È da quando è uscito che volevo tradurre questo aticolo di Thomas originariamente postato sul suo blog e poi su Parkour generation, ma mi ci voleva un po’ di tempo. Credo di aver fatto un buon lavoro.

È molto importante, a mio avviso, questo discorso e si ricollega all’articolo di Axel riassunto nel post precedente. Pur mantenendo intatta la nostra voglia di raggiungere un obiettivo, che a volte ha la forma umana di un atleta che vorremmo eguagliare in abilità e altre volte è semplicemente un’immagine artefatta e pompata di un sé futuro (voglia che costituendo in parte il nostro obiettivo ci aiuta ad impegnarci nell’allenamento, immagini che ci sostengono quando le parole e i concetti mancano e che spesso ci fanno capire che sono possibili cose che non credevamo possibili), nonostante questo dobbiamo riuscire a distaccarci da percorsi prefigurati, preimpostati, riuscire a capire che quello che facciamo lo facciamo per noi soli, e che ciò che decidiamo di espandere, sviluppare, delle nostre abilità è una scelta profondamente personale. Non deve essere legata al nome di una disciplina e al catalogo di trick che la definiscono. A maggior ragione per il fatto che il Parkour, più di ogni altra attività sportiva o marziale, non deve essere descritta tramite i movimenti tipici che lo contraddistinguono, quanto da una superiore volontà di crescità spirituale e fisica insieme. Questa è la mia idea di Parkour: non il percorso più breve da un punto A a un punto B, quanto un lungo viaggio dentro sé stessi, che per la sua stessa natura di esplorazione nelle profondità dell’animo, non può che essere infinito. Come sempre Follow your flow.


Imparare ad imparare, cosa significa? Quando una nuova attività o disciplina cattura la nostra attenzione al punto che decidiamo di impegnare un’ingente quantità del nostro tempo per praticarla, invece di concentrarsi interamente sul contenuto ci poniamo abbastanza domande sull’apprendimento di essa (cioè il processo dell’assorbimento e del rendere proprie nuove abilità e conoscenze)? E se l’apprendimento non fosse solo questione di tempo e impegno, ma piuttosto un problema di chiarezza e concetto? Se l’apprendimento fosse esso stesso un’abilità? Non ci sarebbe allora un modo di ottimizzare ogni grammo dell’impegno che mettiamo nell’acquisizione di una nuova tecnica, e pertanto raggiungere i risultati più velocemente e senza impegno extra?

In ogni disciplina o attività, ci sono sempre quelli che si allenano duramente per anni solo per raggiungere risultati mediocri, e quelli che paiono sorvolare ogni difficoltà sulla loro strada, si tratta di predisposizione naturale o solo di un tipo differente di percezione che è possibile sbloccare?

Questo è un tentativo di esplorare questi temi…

Essere nel momento: equilibrio del “qui, adesso”*
Il filosofo Blaise Pascal una volta scrisse: “Che ciascuno esamini i propri pensieri: li troverà tutti occupati dal passato e dal futuro. Non pensiamo quasi mai al presente; e, se ci pensiamo, è solo per acquistar chiarezza su come disporre l’avvenire”**.

Viviamo nel presente, è il nostro unico campo d’azione, il solo in cui possiamo collegare interamente corpo, mente e ambiente per creare un senso di pura consapevolezza; ma quanto spesso lo facciamo realmente? Ciò che ha scritto Pascal non è mai stato così vero: la maggior parte di noi è cresciuta, ed è ancora, immersa in un mondo di distrazioni: televisione, cellulari, pubblicità, lavoro, attività sociali, internet, giochi… la lista è infinita.

Dalla nascita ci abituiamo ad essere costantemente distratti, per la maggior parte di noi è una cosa normale che accettiamo e che approviamo completamente, consideriamo fuori luogo i nostri rari momenti di noia e ci sforziamo di riempirli con attività più impegnative per la mente.

Come si lega questo all’apprendimento? Avevo uno studente che era molto lento ad imparare e aveva accettato questo fatto come parte della sua natura: faceva lo stesso sbaglio molte volte prima di imparare la lezione, spesso solo per ricadere nuovamente negli stessi errori. Non sapevo proprio come aiutarlo finché ho realizzato qualcosa di essenziale: anche quando si allenava la sua mente era costantemente persa nei suoi pensieri, assorbita nel passato e nel futuro, scivolando lentamente fuori dall’equilibrio del “qui, adesso”.

Ho capito che l’apprendimento di ognuno è chiaramente reso migliore dall’essere in costante connessione con le sensazioni del presente.

Le sensazioni sono un feedback, ci dicono se quello che facciamo è giusto o sbagliato, ci mostrano cosa dovremmo migliorare e in che modo farlo, a patto che prestiamo attenzione ad esse. La mera ripetizione è inutile se non si presta attenzione costante a ciò che si sta facendo, ma solo al fatto che lo si fa. Impara in tempo reale, sii sveglio e consapevole, senti e analizza ciò che stai facendo. Provare di nuovo non significa fare di nuovo; ogni tentativo è una nuova opportunità di fare meglio, basata sull’esperienza dei tentativi precedenti.

Quindi evita ogni tipo di distrazione quando ti stai allenando, lascia che la tua intera persona sia rivolta verso ciò che stai facendo e tutte le tue energie, le tue qualità, tutto ciò di cui sei fatto cessi di essere disperso e sprecato, ma invece lavori per te verso un chiaro obiettivo che hai scelto, come un intero esercito che marci all’unisono verso un unico bersaglio.

Ho dedicato del tempo a spiegare queste cose allo studente, lasciandogli tempo per assorbire, e da allora ha fatto progressi pazzeschi e adesso è uno dei più veloci ad imparare, come non avrei mai potuto pensare!

Critica costruttiva: la visione positiva
Collezionare feedback e integrarli continuamente in ciò che si fa è uno degli elementi più importanti dell’imparare ad imparare, ma farlo con assoluta positività è la chiave per creare l’alchimia. Quando si prova e si sbaglia, si riprova più duramente, ma se si fallisce di nuovo si tende spesso ad agitarsi e irritarsi, e le nostre emozioni ci conquistano e corrompono lo stato mentale dell’apprendimento positivo in cui eravamo. È poi molto semplice cadere nella critica negativa e iniziare a farsi domande sbagliate, come “perché sono così negato?”, o anche “perché non ne faccio una giusta?”.
La mente, in questi casi, lavora in modo decisamente stupido, come se cercasse una risposta diretta alle domande; per esempio: “non sei bravo in questo perché non fa per te”, o “non puoi farne una giusta perché non sei fatto per questo”. Le risposte che ci offre sono spesso trasferite al livello inconscio e, anche se involontariamente, induciamo noi stessi al fallimento.

Quindi, bisogna farsi le domande giuste se si vogliono trovare le risposte giuste: “Come posso migliorare in questo?”, “Come posso evitare questi errori?”, “Cosa mi trattiene dal completo controllo?”.

Condiziona la tua mente alla positività e otterrai risultati positivi. La visione positiva è quella che può tratteggiare un chiaro obiettivo e un elenco di modi per raggiungerlo, indifferenti a ciò che ci ostacola. E ogni resistenza al tuo progresso, invece di essere una fonte di frustrazione, diventerà la chiamata per un nuovo traguardo, una possibilità per l’esplorazione di sé stessi.
Non avrai bisogno di ignorare la tua frustrazione, non ci sarà più, trasformata in una nuova eccitante sensazione di sfida!

Allenarsi, per quanto intenso possa diventare, non è che un gioco, quindi non prenderlo troppo seriamente, anche se ti ci dedichi ogni giorno per ore, rilassati, la tensione interna causerà rigidità esterna, lasciala fluire dentro e scorrerà fuori. La luminosità è la chiave.

Scoprire piuttosto che costruire: il concetto del fiore che sboccia
“Quando i miei studenti ed io pensiamo alle battute come cose da scoprire piuttosto che costruire, pare che imparino più in fretta e senza frustrazione.”
Timothy Gallwey, The Inner Game of Tennis
Qui semplicemente parafraserò questo grande libro.

Come spiegato prima, una parte importante del processo di apprendimento è collegata direttamente a come visualizziamo le cose. Costruire abilità implica che ci sei tu + tutto ciò che hai imparato. Come abiti indossati sopra altri abiti, le tue abilità non sono connesse a ciò che sei, sono meramente aggiunte a te in una maniera del tutto impersonale. Il progresso, in questo stato mentale, appare senza fine e, peggio, deteriorabile…

Adesso, parliamo di fiori… i fiori non crescono, fioriscono: dall’istante in cui esistono come minuscoli semi, sono già il fiore futuro in cui si trasformeranno, proprio come un bambino appena nato è già l’essenza del futuro adulto che diverrà.

Costantemente si esprimono come fiori e giorno per giorno, istante dopo istante, diventano un poco più simili a come saranno da sbocciati, ciò che erano all’inizio è adesso pienamente espresso ed essi sono totalmente sé stessi.

Se visualizzi tutte le tue abilità come presenti in te dall’inizio, in standby, in attesa di essere scoperte e rilasciate, terrai in pugno molta di quella pressione che gli atleti affrontano durante l’allenamento intenso, perché vuol dire che stai semplicemente imparando ad esprimere te stesso, e non più azzerando il tuo vero io. Lo si potrebbe quasi chiamare un processo di illuminazione. In questo caso, niente viene davvero imparato, tutto è semplicemente rivelato e quindi è una parte indissociabile di te.

Il progresso non è l’addizione di porzioni di conoscenza e abilità come i pezzi dei Lego impilati uno sull’altro, è solo l’eliminazione di ciò che ti sta trattenendo dall’esprimere il tuo vero io.

Conclusione: espandere l’orizzonte
Lungo questo articolo non ho mai menzionato il Parkour: la ragione è che “imparare ad imparare”, una volta acquisito, è un’abilità che trascende ogni attività al quale può essere applicato. Una volta appreso lo si può usare ugualmente in ogni campo.

È un dato di fatto, per esplorare una singola disciplina è necessario allargarsi continuamente in altri campi, in quanto nessuna conoscenza è mai completamente isolata.

Un samurai una volta scrisse riguardo la sua arte: “La pratica non può essere confinata all’uso della spada, se ci si limita a questo non si raggiungerà mai la conoscenza nell’uso della spada”. Lo stesso guerriero aggiunse: “Ho applicato le lezioni della mia arte a tutte le altre discipline in cui mi sono imbattuto, quindi in ogni disciplina sono il personale maestro”. La strada che porta a dominare una disciplina porterà al controllo sulle altre; seguirne una è vicino a seguirle tutte, più che la mera disciplina impariamo a esplorare e conoscere attraverso la pratica. La disciplina stessa non è mai la fine, ma il mezzo verso un più nobile, significativo e perenne fine: il nostro io sbocciato.

*Letteralmente right here right now vuol dire proprio qui, proprio adesso (è anche il titolo della famosa canzone di Fatboy Slim), simile all’hic et nunc latino.


**Cit. da Google Libri

domenica 18 aprile 2010

Ficcando il naso tra i preferiti di Damien Walters

Ah ah ah! Guarda cosa ho trovato tra i preferiti di Damien Walters!!!
Questo interessante video che mostra un Ryan Doyle giovane, vestito da checca che cerca di fare il figo.



E poi questo!!!!!!!!!!!!!!! Ah ah ah ah! Come ha commentato qualcuno: di certo nessuno è interessato alla musica.

Run

Una rivista sul Parkour tutta italiana. Avevo detto o no che è diventata una moda?! Aspetto il prossimo, sono curioso.

mercoledì 14 aprile 2010

Un’unica grande gabbia: la mente

Riporto alcuni estratti dell’interessantissimo articolo di Axel postato sul suo blog.

Parkour e libertà
[…]non è forse accomodante appellarci alla libertà pur vivendo la nostra disciplina circondati da schemi, concetti, e gabbie più o meno spaziose?

“Nell’antica Cina prima che un’artista cominciasse a dipingere qualsiasi cosa un albero per esempio, vi si sedeva di fronte per giorni mesi anni, non importava per quanto tempo, finché egli era l’albero. Non si identificava con l’albero, egli era l’albero. Ciò significa che tra lui e l’albero non c’era spazio, tra l’osservatore e la cosa osservata, non c’era colui che sentiva la bellezza, il movimento, l’ombra, l’intensità di una foglia, la qualità del colore. Egli era totalmente l’albero, e solo in quello stato poteva dipingere.”*

Se il pittore non fosse l’albero non potrebbe far altro che limitarsi a dipingere l’immagine dell’albero che la sua mente ha creato. Questo ha valore anche nel Parkour. Quando pratichiamo in realtà non stiamo facendo nulla di personale, nella maggior parte dei casi ci limitiamo ad eseguire con il nostro corpo l’immagine che ci siamo fatti della disciplina, di certi movimenti e mescoliamo questa immagine con il desiderio di realizzare qualcosa di appagante, di armonioso, di bello o di apprezzabile agli occhi degli altri.
*Cit. krishnamurti

Essere la disciplina
Troppo spesso ci limitiamo ad imitare i movimenti di altri praticanti, sia osservando i nostri compagni d’allenamento sia attraverso i numerosi video che il web ci offre. Questo di per sé non è sbagliato; l’apprendimento per imitazione fa parte del nostro essere animali ma è di vitale importanza non restare intrappolati in questo schema, che da una parte è sicuramente comodo da un punto di vista prettamente motorio, dall’altra rappresenta un limite e un ostacolo alla crescita della disciplina in quanto crea un gabbia di schemi e di preconcetti attorno ad essa.

Torniamo all’esempio del pittore, egli dipinge solo quando egli stesso è l’albero, allo stesso modo ogni praticante può essere veramente libero solo quando è egli stesso la disciplina.


Un labirinto di immagini, un labirinto senza uscite
Questa è la parte che trovo più interessante, essendomi spesso trovato non solo a pensare queste stesse cose, ma a notarle nel comportamento mio e altrui.
Nel momento in cui ci identifichiamo con la disciplina seguiamo un canovaccio creato da altri limitando di fatto le nostre potenzialità e quelle di ciò che pratichiamo come se potessimo agire esclusivamente nel range d’azione che ci impone l’immagine che la nostra mente ha creato. Vivendo il Parkour come una mera immagine, come un’etichetta creiamo una distanza tra noi e la disciplina ed è proprio in questa distanza che sono contenute le nostre paure, le nostre ansie, le aspettative, i paragoni e i confronti con gli altri praticanti, la paura di cadere, la paura di non riuscire, la paura di provare dolore, la paura di fallire nell’esprimere noi stessi. Queste sono tutte immagini, e creiamo immagini per riempire la distanza che c’è tra noi e la disciplina, ma per ogni immagine creata c’è una nuova distanza da colmare e da questo scaturisce un macchinoso processo senza fine.


Una via d’uscita
Quello che possiamo fare è riconoscere queste gabbie, questa violenza, queste imposizioni; riconoscerle in noi come prodotti della nostra mente, diventare ottimi osservatori, guardare ai particolari dei fenomeni, degli avvenimenti riuscendo a cogliere il quadro generale del tutto. Riconoscere quando ci stiamo ingannando e il meccanismo che vi è dietro, accettarlo senza bramare di annientarlo. Senza desiderare di essere migliori in un futuro prossimo o remoto, siamo già migliori di ora e lo siamo proprio ora; e se lo capiamo scopriremo che non ha senso parlare di “migliore” …migliore di cosa? della tua immagine di ieri? il presente è l’unico tempo che ha veramente importanza, è qui ed ora che viviamo ed è qui è ora che esistiamo, né ieri né domani.

Per quanto riguarda questa conclusione, aggiungerei una piccola postilla, forse si potrebbe dire “senza cercare di essere migliori ma cercando di migliorare”. Mi sembra che detta così la frase abbia uno scarto di senso fondamentale tra mente rivolta sterilmente al futuro e mente rivolta proficuamente al presente. E qui poi si potrebbe innestare tutta una lunga disquisizione sullo zen il buddismo ecc. (per esempio leggi quanto ha già detto Gato in proposito).

venerdì 9 aprile 2010

Joseph William Kittinger



Stavo guardando questo video sul tubo, e sebbene tutte le imprese mostrate lascino a bocca aperta (nota 1: lo skydiving della penultima scena deve essere una cosa meravigliosa! nota 2: quel coglione che si è lanciato senza paracadute ha lasciato andare la RedBull, io mi chiedo in testa a chi sia finita con la velocità che può aver preso!) l’ultima mi ha davvero fatto sbarrare gli occhi. Chissà perché l’uomo ha bisogno o ha la voglia di sfidare così tanto le leggi della fisica, di liberarsi dalle catene del possibile. Un po’ lo si fa anche col Parkour, certo non ai miei livelli, però se si pensa a un Daniel Ilabaca o un Damien Walters (due presi a caso :-P)…

Comunque sia, ti lascio qualche informazione sul capitano Kittinger, quello nella prima posizione del video. In questo articolo, preso da QUI, si parla del terzo salto nonché il più alto che abbia mai fatto.


Il Colonnello Joseph Kittinger. È stato colui che ha superato la velocità del suono senza alcun veicolo di sorta, ma in caduta libera, lanciandosi da 31,333 metri di altezza e atterrando con un paracadute.
Sembra assurdo ma è tutto vero. Avevo letto di questa impresa, compiuta nell’ambito del Progetto Excelsior, che mirò a comprendere gli effetti dell’altitudine sul corpo umano e la possibilità di rientrare autonomamente da altezze stratosferiche, tra le altre cose.
L’altitudine di crociera di un moderno jet commerciale si aggira attorno ai 10.000 metri; Joe Kittinger si lanciò da 30.000. Kittinger era un pilota di ampissima esperienza, supportato da un dipartimento dell’aeronautica militare, ma più di ogni altro aveva qualcosa di unico: una straordinaria passione per le imprese impossibili. Un giorno di sole del 1960, coperto solo da poche nuvole distanti, l’allora capitano Joe Kittinger, munito solamente di una tuta da astronauta, di un paracadute e di una telecamera fissata al casco, oltre agli ovvi strumenti di volo, salì a bordo di un pallone ad elio dal caratteristico colore argentato (quasi identico a quelli meteorologici) e non fece altro che attendere e controllare la situazione.

In verità non era affatto una buona giornata, in quanto se le nuvole si fossero addensate, si sarebbero perse le comunicazioni radio con la terra, ma egli volle salire lo stesso. Una mongolfiera è sostenuta in volo dall’aria calda che essa stessa brucia, e l’altitudine può essere decisa a piacimento del pilota; un pallone ad elio viene spinto in alto da un gas più leggero dell’aria stessa, e quindi è un mezzo che va in una sola direzione… A questo si aggiunse il bollettino meteo, che arrivato troppo tardi per poter abortire la missione annunciò che la radio oltre un certo punto si sarebbe spenta. Dopo molti minuti di ascesa in condizioni di temperatura drasticamente bassa ed ossigeno sempre più carente, il nostro impavido aviatore dovette fronteggiare due inconvenienti: il pallone che acquistava troppa velocità e perdeva il controllo e una malfunzione del guanto destro, che gli procurava insistente dolore.

Per il primo la soluzione era semplice, ed era una cosa che aveva fatto già molte volte: bastò svuotare il pallone (che aveva raggiunto volume 5 o 6 volte maggiore di quello alla partenza, a causa della pressione calante) di un po’ del suo elio gassoso per ridurre la sua inesorabile accelerazione ad un ritmo prestabilito. Per il secondo guaio c’era solo da sperare che la tuta sopportasse la pressione fino al suo ritorno a terra, altrimenti in breve tempo il suo corpo sarebbe esploso poiché estremamente più denso dell’ambiente circostante, e il nostro eroe avrebbe incontrato morte certa. Raggiunta una altitudine di 31 chilometri e 444 metri, quando ormai la mano sotto il guanto guasto aveva assunto un volume due volte maggiore al normale, Joe Kittinger aveva solo due prospettive: saltare o continuare a salire col pallone fino a venire disperso nell’atmosfera superiore... Saltò. Da quell’altitudine poteva vedere la terra azzurra e meravigliosa, ricoperta da una fitta coltre di nubi bianche come la panna.

Come già Einstein aveva previsto, quasi per gioco, quell’uomo non ebbe assolutamente sensazione di cadere. L’aria, rarefatta fino all’inverosimile, non offriva una resistenza percettibile, e quindi egli si trovò in un sogno gelato, levitando come gli angeli e i fantasmi, sospeso nel nero dello spazio profondo. Tale era l’inganno che dovette girarsi a guardare il suo pallone, che velocemente scompariva, per capacitarsi del suo moto ad assurda velocità. Senza perdere la calma, contati una manciata di secondi, secondo gli studi teorici fatti a terra, aprì il paracadute di stabilizzazione, totalmente simile al pilotino di un paracadute convenzionale, il quale lo portò in posizione eretta e ne rallentò, seppur di poco, la caduta. Kittinger cadde e cadde, sempre più cosciente che stava accelerando come un aereo a reazione, e ad un certo punto fu invaso da un frastuono assordante: aveva sfondato con gli stivali il muro del suono e continuava ad accelerare. Ciononostante, l’esperto pilota dovette mantenere salde calma e concentrazione fino alla fine, perché se in quegli attimi di caos totale avesse aperto il paracadute principale, l’alta velocità l’avrebbe spezzato, assieme alla sua unica speranza di salvezza.

Sotto la soglia dei cinquemila metri, oramai ridisceso sotto il limite del suono, la caduta si stabilizzò ad un punto in cui resistenza dell’aria e gravità erano quasi perfettamente bilanciati, e fu quello il momento di tirare con forza la maniglia di rilascio del paracadute. Un forte scossone e finalmente la sua corsa si rallentò in modo sensibile; qualche secondo di attesa e finalmente i suoi piedi toccarono terra dopo 4 minuti e 36 secondi di caduta. Non ci furono parate e cortei per l’uomo che aveva saltato dalla stratosfera, ma Kittinger in cuor suo sapeva bene di aver compiuto un’impresa unica, che nessuno fino a questo momento ha avuto l’ardore di ripetere.

Roscigno vecchia

A Pasquetta ho visitato un paese fantasma. Uhhh, che paura! Mi aveva sempre affascinato l’idea di questi paesi completamente disabitati, e in effetti visitarlo è stato parecchio suggestivo. Roscigno Vecchia fu definitivamente abbandonata all’inizio del ’900. A causa delle continue frane, più di una volta il paese (inizialmente situato molto più a valle) si è spostato fino alla posizione attuale più a monte (la Roscigno Nuova attuale). Tra i monti del Cilento, sopra il Vallo di Diano, il fascino delle abitazioni distrutte e silenziose è fonte di grossa ispirazione per i fotografi. Peccato che le batterie della macchinetta fotografica mi hanno abbandonato sul più bello! Ancora c’è vita però a Roscigno Vecchia, i pastori pascolano le pecore ed uno stereotipato vecchietto di montagna, con tanto di barbona e pipa, si prende cura del museo e si mette a disposizione per ogni richiesta di fotografia. Di notte, invece, questo paese disabitato deve essere davvero inquietante, abbandonato al mistero del buio.



Altre foto che ho fatto QUI.

venerdì 2 aprile 2010

Kodak PlaySport



Damien Walters pubblicizza la nuova Kodak PlaySport. Una videocamera pensata per lo sport e le situazioni estreme. Perfetta per i video di Parkour.
Pro: impermeabile fino a 3 metri sott’acqua. Resistente agli urti. Varie modalità di risoluzione, tra cui FullHD. Stabilizzatore. Prezzo contenuto (149 euro).
Contro: Non ha lo zoom ottico (ma digitale 4x). Microfono mono (l’audio non è il suo forte). Fotocamera 5.0 mgpxl (non è male, ma forse un po’ di più si poteva fare).

Parkour magazine

Hai presente quando tutto a un tratto escono due tre film con lo stesso argomento o sullo stesso personaggio? Hollywood ogni tanto si fissa su qualcosa, e mi fa girare le palle. Un esempio è Alice nel Paese delle Meraviglie, alla fine ha prevalso il film di Tim Burton targato Disney, ma in realtà erano tre i progetti iniziali, uno dei quali tratto da un videogioco molto originale in cui la protagonista era una ragazza chiusa in manicomio per le sue visioni di conigli col panciotto e bruchi cannaioli, l’altro di Marilyn Manson (Dio ti ringrazio per avergli bloccato il progetto!).

Beh, l’ho presa lunga, per dire che ora c’è la moda delle riviste di Parkour a quanto pare. E così dopo Spiked Magazine dei ParkourGenerations, arriva Jump Magazine di UrbanFreeFlow.

Solo che quest’ultimo lo leggi online o lo scarichi in formato pdf.
Ad aprile esce il terzo numero, ecco i link per i primi due:
Primo
Secondo
Molto bella l’impaginazione e le foto.

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