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mercoledì 14 aprile 2010

Un’unica grande gabbia: la mente

Riporto alcuni estratti dell’interessantissimo articolo di Axel postato sul suo blog.

Parkour e libertà
[…]non è forse accomodante appellarci alla libertà pur vivendo la nostra disciplina circondati da schemi, concetti, e gabbie più o meno spaziose?

“Nell’antica Cina prima che un’artista cominciasse a dipingere qualsiasi cosa un albero per esempio, vi si sedeva di fronte per giorni mesi anni, non importava per quanto tempo, finché egli era l’albero. Non si identificava con l’albero, egli era l’albero. Ciò significa che tra lui e l’albero non c’era spazio, tra l’osservatore e la cosa osservata, non c’era colui che sentiva la bellezza, il movimento, l’ombra, l’intensità di una foglia, la qualità del colore. Egli era totalmente l’albero, e solo in quello stato poteva dipingere.”*

Se il pittore non fosse l’albero non potrebbe far altro che limitarsi a dipingere l’immagine dell’albero che la sua mente ha creato. Questo ha valore anche nel Parkour. Quando pratichiamo in realtà non stiamo facendo nulla di personale, nella maggior parte dei casi ci limitiamo ad eseguire con il nostro corpo l’immagine che ci siamo fatti della disciplina, di certi movimenti e mescoliamo questa immagine con il desiderio di realizzare qualcosa di appagante, di armonioso, di bello o di apprezzabile agli occhi degli altri.
*Cit. krishnamurti

Essere la disciplina
Troppo spesso ci limitiamo ad imitare i movimenti di altri praticanti, sia osservando i nostri compagni d’allenamento sia attraverso i numerosi video che il web ci offre. Questo di per sé non è sbagliato; l’apprendimento per imitazione fa parte del nostro essere animali ma è di vitale importanza non restare intrappolati in questo schema, che da una parte è sicuramente comodo da un punto di vista prettamente motorio, dall’altra rappresenta un limite e un ostacolo alla crescita della disciplina in quanto crea un gabbia di schemi e di preconcetti attorno ad essa.

Torniamo all’esempio del pittore, egli dipinge solo quando egli stesso è l’albero, allo stesso modo ogni praticante può essere veramente libero solo quando è egli stesso la disciplina.


Un labirinto di immagini, un labirinto senza uscite
Questa è la parte che trovo più interessante, essendomi spesso trovato non solo a pensare queste stesse cose, ma a notarle nel comportamento mio e altrui.
Nel momento in cui ci identifichiamo con la disciplina seguiamo un canovaccio creato da altri limitando di fatto le nostre potenzialità e quelle di ciò che pratichiamo come se potessimo agire esclusivamente nel range d’azione che ci impone l’immagine che la nostra mente ha creato. Vivendo il Parkour come una mera immagine, come un’etichetta creiamo una distanza tra noi e la disciplina ed è proprio in questa distanza che sono contenute le nostre paure, le nostre ansie, le aspettative, i paragoni e i confronti con gli altri praticanti, la paura di cadere, la paura di non riuscire, la paura di provare dolore, la paura di fallire nell’esprimere noi stessi. Queste sono tutte immagini, e creiamo immagini per riempire la distanza che c’è tra noi e la disciplina, ma per ogni immagine creata c’è una nuova distanza da colmare e da questo scaturisce un macchinoso processo senza fine.


Una via d’uscita
Quello che possiamo fare è riconoscere queste gabbie, questa violenza, queste imposizioni; riconoscerle in noi come prodotti della nostra mente, diventare ottimi osservatori, guardare ai particolari dei fenomeni, degli avvenimenti riuscendo a cogliere il quadro generale del tutto. Riconoscere quando ci stiamo ingannando e il meccanismo che vi è dietro, accettarlo senza bramare di annientarlo. Senza desiderare di essere migliori in un futuro prossimo o remoto, siamo già migliori di ora e lo siamo proprio ora; e se lo capiamo scopriremo che non ha senso parlare di “migliore” …migliore di cosa? della tua immagine di ieri? il presente è l’unico tempo che ha veramente importanza, è qui ed ora che viviamo ed è qui è ora che esistiamo, né ieri né domani.

Per quanto riguarda questa conclusione, aggiungerei una piccola postilla, forse si potrebbe dire “senza cercare di essere migliori ma cercando di migliorare”. Mi sembra che detta così la frase abbia uno scarto di senso fondamentale tra mente rivolta sterilmente al futuro e mente rivolta proficuamente al presente. E qui poi si potrebbe innestare tutta una lunga disquisizione sullo zen il buddismo ecc. (per esempio leggi quanto ha già detto Gato in proposito).

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